Louise GluckLa poeta-professoressa Louise Glück, premio Nobel per la letteratura 2020, ci parla attraverso la natura e i miti
di Luisanna Paggiaro

“I am tired of having hands / she said / I want wings – “
“Sono stanca di avere le mani / lei disse / voglio delle ali - ”
(Blue Rotonda, da Averno)

Perché festeggiare il premio Nobel a Louise Glück (nella bellissima foto di @Katherine Wolkoff) in una rivista come AnfisInForma? Per tre precisi e validi motivi: per l’originalità e la profondità della sua voce poetica, per la sua sensibilità come donna e per il suo impegno di professoressa profuso nell’educazione dei giovani alla poesia.
Nella poesia The Mountain la professoressa Louise Glück si rivolge a studenti svogliati (“They aren’t listening, / their fingers / tapping at the wooden desks” [Non ascoltano, battono con le dita sui banchi di legno], parlando di cosa significhi l’arte e come la vita dell’artista sia segnata da fatica, gioia e insieme desiderio di successo: “My students look at me expectantly. / I explain to them that the life of art is a life / of endless labor. Their expressions / hardly change; they need to know / a little more about endless labor. / So I tell them the story of Sisyphus, / how he was doomed to push / a rock up a mountain, knowing nothing / would come of this effort / but that he would repeat it / indefinitely / I tell them / there is joy in this, in the artist’s life” [Gli studenti mi guardano in ansiosa attesa / spiego che la vita dell’arte è caratterizzata da una fatica senza fine. Le loro espressioni / non cambiano affatto; hanno bisogno di sapere / qualcosa di più rispetto a questa infinita fatica. / Così racconto la storia di Sisifo / come fu condannato a spingere un masso dalla base alla cima del monte / consapevole che non ci sarebbe stato alcun risultato a questo sforzo / ma che lui avrebbe dovuto ripetere questo atto per un tempo indeterminato / Dico loro che c’è gioia in questo sforzo, nella vita dell’artista](da The Triumph of Achilles).
Citiamo le poesie in lingua originale perché, se possibile, la poesia va letta e apprezzata nella lingua in cui è stata scritta; tuttavia per facilitare chi ha poca dimestichezza con l’inglese aggiungiamo la traduzione, fatta per un paio di raccolte dall’unico traduttore italiano, Massimo Bacigalupo (in un video in appendice commenta l’attribuzione del Nobel), e negli altri casi proposta da noi. Inoltre, facendo nostra la motivazione con cui l’Accademia svedese le ha attribuito il prestigioso premio (“Per la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende l’esistenza individuale universale”), vediamo i punti salienti della sua storia e della sua opera.

Chi è Louise Glück
Nata a New York il 22 aprile 1943 in una famiglia di immigrati ebrei ungheresi Glück ha trascorso la sua infanzia a Long Island: “I grew up in a village: now / it’s almost a city. / People came from the city, wanting / something simple, something /better for the children. / Clean air; nearby / a little stable [...] Our house was gray, the sort of place / you buy to raise a family”. [Sono cresciuta in un villaggio / ora è quasi una città. / La gente proveniva dalla città, cercando / qualcosa di semplice, qualcosa di meglio per i bambini. / Aria pulita; vicino una piccola stalla… La nostra casa era grigia, il tipo di casa che si compra per crescere dei figli].
Ma poi tutto cambia: “The houses get closer together, / the old trees die or get taken down” [Le case si fanno sempre più vicine, / i vecchi alberi muoiono o sono abbattuti], (Paradise da Ararat, 1990) e la famiglia è causa per Louise di inquietudine e sofferenza: il padre, mancato scrittore e uomo d’affari, è una presenza forte e costante nell’infanzia della bambina, la madre, laureata in francese, la introduce allo studio dei classici, una sorella maggiore è morta prima che lei nascesse. Da adolescente Louise soffre di anoressia, vicenda che diventa oggetto di alcune sue poesie, ed è costretta ad abbandonare gli studi superiori alla George W. Hewlett High School per iniziare il trattamento psicanalitico, a cui attribuisce il merito di averla aiutata a superare la malattia, come spiega in Proofs and Theories, saggi sulla poesia del 1994: “Analysis taught me to think. Taught me to use doubt, to examine my own speech … It gave me an intellectual task capable of transforming paralysis into insight” [L’analisi mi ha insegnato a pensare. Mi ha insegnato ad avere dubbi e a esaminare il mio linguaggio… Mi ha fornito lo strumento intellettuale capace di trasformare la paralisi in introspezione]. Segue quindi un corso di poesia al Sarah Lawrence College e dal 1963 al 1965 si iscrive ad alcuni seminari di poesia alla School of General Education della Columbia University, dove conosce i poeti Léonie Adams e Stanley Kunitz, che saranno suoi mentori.
La sua prima raccolta di poesie, Firstborn, pubblicata nel 1968, riceve una buona critica, ma è seguita da un periodo di crisi, caratterizzato da un blocco creativo che le impedisce di scrivere. Riprende l'attività dopo il 1971, quando inizia a insegnare poesia al Goddard College nel Vermont, attività di docenza che la caratterizzerà fino a oggi in varie università: nel 1984 è nominata docente senior presso il Dipartimento di inglese della facoltà del Williams College nel Massachusetts e nel 2004 Rosenkranz Writer in Residence alla Yale University.

Temi autobiografici e miti classici
La narrazione personale e autobiografica gioca un ruolo predominante in Firstborn (1968) e in The House on Marshland (1975), dove la famiglia è spesso presente e nelle raccolte successive, The Triumph of Achilles (1985), Meadowlands (1996) e Vita Nova (1999), Glück usa i miti per costruire in modo più indiretto il teatro dei conflitti personali: Achille, Penelope, Ulisse, Telemaco, Circe, Didone e molti altri personaggi mitologici esprimono, attraverso le loro esperienze, l’universalità della condizione umana e la presenza del divino. Ecco un paio di esempi:
· Achille: “In his tent, Achilles / grieved with his whole being / and the gods saw / he was a man already dead, a victim / of the part that loved, / the part that was mortal” [Nella tenda Achille / si affliggeva della sua intera esistenza / gli dei videro che era un uomo già morto, una vittima / della parte di sé che amava / la parte mortale]. (The Triumph of Achilles).
· Penelope: “The beloved doesn’t / need to live. The beloved / lives in the head. The loom / is for the suitors, strung up / like a harp with white shroud-thread” [L’amato / non ha bisogno di vivere. L’amato / vive nel pensiero. Il telaio è per i pretendenti, teso / come un’arpa con il filo di un bianco sudario] (Ithaca).
Nella raccolta Vita Nova la prima poesia, che ha lo stesso titolo della raccolta, comincia con “You saved me, you should remember me” [Mi hai salvato, dovresti ricordarti di me], dove ”you” è ancora una volta un preciso riferimento a una imprecisata entità esterna, a un dio a cui ci si rivolge, e dopo riferimenti e associazioni alla primavera e alla gioia che questa evoca, termina con il doloroso riconoscimento che la primavera è messaggera di morte: “Surely spring has returned to me, this / time / not as a lover but a messenger of death, yet / it is still spring, it is still meant tenderly” [Certamente la primavera è ritornata da me / questa volta non come amante ma messaggera di morte, tuttavia / è pur sempre primavera, ha ancora un dolce significato].
La stessa frase “You saved me, you should remember me” è il verso iniziale di un’altra poesia, Seizure, in cui però si parla di un cambiamento e di una solitudine personale assunta come un destino a cui non si può sfuggire: “You changed me, you should remember me / … I remember I had gone out / to walk in the garden. As before into / the streets of the city, into / the bedroom of that first apartment. / And yes, I was alone; / how could I not be?” [Mi hai cambiato, dovresti ricordarti di me / … Ricordo di essere uscita a camminare in giardino. Come prima / per le strade della città / nella camera di quel primo appartamento. / E sì, ero sola; / come avrei potuto non esserlo?].

The Wild Iris (1992)
Nel 1993 Glück riceve il premio Pulitzer per The Wild Iris, i cui componimenti esplorano la possibilità di identificazione soggettiva di fronte all’assenza fisica e all’incertezza comunicativa che dominano la realtà del giardino dell’iris, in cui la conversazione coinvolge la voce umana della donna (giardiniere e poetessa), diverse piante che abitano il giardino e una divinità creatrice che si esprime attraverso vari fenomeni naturali. Si delinea una specie di dialogo la cui espressione è il tessuto stesso della raccolta, cucito sul modello di un sapere solo apparentemente condiviso, perché in realtà nell’incertezza comunicativa delle liriche si riflette l’incertezza dell’identità delle voci, delle modalità e dei contenuti del loro scambio.
La donna cerca nella divinità e nella natura un modello di esistenza a cui rifarsi: nella prima poesia Matins (Mattutino) esprime depressione ma anche attaccamento alla vita: “I make / another case - being depressed, yes, but in a sense / passionately / attached to the living tree”. [Io sostengo / un’altra tesi: depressa, sì, ma in qualche modo / appassionatamente /attaccata all’albero vivo]. La precarietà incerta dell’esistenza e l’incombenza della morte producono una distanza fra io e realtà che la donna tenta di colmare calandosi nel corpo arboreo della natura: “my body / actually curled in the split trunk, almost at peace /… almost able to feel / sap frothing and rising” [ il mio corpo effettivamente / rannicchiato nel tronco spaccato, quasi in pace,/ … quasi capace di sentire / la linfa fermentare e salire]. In questo contesto di sofferenza e isolamento che la donna sente come propri, Dio (appellato come “unreachable father”) è identificato come l’artefice e l’esecutore dell’esilio, e la sua mancanza non è solo fisica, ma anche morale, è indifferenza, freddezza e disprezzo per i tentativi della donna di comprendere e comprendersi.
E poi in questo giardino della vita e della morte ci sono i fiori, che occupano uno spazio-tempo definito e una prospettiva apertamente radicata e materiale: l’iris selvatico racconta la propria morte (“At the end of my suffering / there was a door” [Alla fine del mio soffrire / c’era una porta] e la rinascita attraverso vivide immagini - rumori, rami, il buio del seppellimento, e poi di nuovo il volo degli uccelli fra gli arbusti – e si rivolge direttamente agli umani: “You who do not remember / passage from the other world / I tell you I could speak again: whatever / returns from oblivion returns / to find a voice” [Tu che non ricordi / passaggio dall’altro mondo / ti dico che seppi parlare di nuovo: tutto ciò / che ritorna dall’oblio ritorna / per trovare una voce]. In The Red Poppy il papavero cerca nell’esperienza umana un’analogia con la propria, per comprendersi, e trova una sua voce personale: “in truth / I am speaking now / the way you do. I speak / because I am shattered” [in verità / ora sto parlando /come fate voi. Parlo / perché sono disfatto]. Così i fiori illustrano alla donna i legami fra linguaggio e realtà, fra etica e conoscenza, fra individuo e comunità, e di conseguenza il mondo vegetale si pone come unica alternativa al dominio del solipsismo e del compatimento di sé, che caratterizzano la voce della donna e di rimando quella divina.

Averno (2006)
In Averno, il cui titolo indica il lago di origine vulcanica in territorio napoletano, non lontano dal Vesuvio, che era secondo i latini la soglia attraverso la quale si entrava negli Inferi, Glück esplora cosa accadrà dopo la morte, dove si andrà e cosa ci faccia l’anima nell’aldilà senza le cose più care.
L’apertura della prima poesia già presenta la condizione dei morti: “This is the moment when you see again / the red berries of the mountain ash / and in the dark sky / the birds’ night migrations. // It grieves me to think / the dead won’t see them “. [Questo è il momento in cui vedi di nuovo / le bacche rosse del sorbo selvatico / e nel cielo scuro / le migrazioni notturne degli uccelli. // Mi addolora pensare / che i morti non le vedranno”].
Nella seconda poesia Persephone the Wanderer a ottobre, mese d’inizio dei misteri eleusini, Persefone, figura della mitologia greca destinata ad oscillare tra il mondo terreno e quello sotterraneo, così esprime l’angoscia delle cicatrici della sua esistenza: “They say / there is a rift in the human soul / which was not constructed to belong / entirely to life” [Dicono / che c’è una spaccatura nell’anima umana / che non fu costruita per appartenere / interamente alla vita].
Al giornalista Adam Smith che di prima mattina aveva contattato la Glück nella sua casa a Cambridge nel Massachusetts e le aveva chiesto qualche reazione al suo Nobel, la poeta-professoressa ha risposto in modo affrettato, perché ancora assonnata e desiderosa di una tazza di caffè, manifestando preoccupazione per lo sconvolgimento che il premio poteva arrecare alla vita quotidiana dei suoi cari, e ha invitato i lettori a leggere qualsiasi sua raccolta, perché una diversa dall’altra. E questo è quello che invitiamo a fare ai lettori.

Le raccolte di poesie di Louise Glück tradotte in italiano sono state ripubblicate dopo l’attribuzione del Nobel:
L’iris selvatico, traduzione di Massimo Bacigalupo, Milano, il Saggiatore, 2020.
Averno, traduzione di Massimo Bacigalupo, Milano, il Saggiatore, 2020.

__________________________

Il rapallese Massimo Bacigalupo è il massimo esperto di Louise Gluck, Nobel per la Letteratura 2020
https://youtu.be/gDyrdJ-EzFQ

___________________________

Louise Glück: "Il Nobel? Preferisco rimanere invisibile"
di Raffaella De Santis

Pubblicato sul sito del premio il discorso della poetessa americana: "La poesia è un dialogo a due tra autore e lettore. Metterla sotto i riflettori può essere pericoloso"

Louise Glück: "Il Nobel? Preferisco rimanere invisibile"